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Papa Francesco a Sarajevo

di Fabio Zavattaro – Non ci sono più i cartelli con la scritta campo minato all’uscita dall’aeroporto. Le case non sono più scheletri bruciati, con i segni dei colpi di granate, cannoni, raffiche di mitragliatrici. È la prima cosa che salta agli occhi arrivando a Sarajevo. Diciotto anni dopo il viaggio di Giovanni Paolo II, venti anni dalla fine della guerra, con la firma degli accordi di pace – stipulati tra il primo e il 21 novembre 1995 nella base Wright-Patterson dell’Air Force a Dayton, nello stato americano dell’Ohio – e del Protocollo di Parigi, 14 dicembre 1995, la città sembra aver quasi cancellato del tutto i segni di un conflitto costato almeno 12 mila morti e 56 mila feriti nell’assedio della città, durato 4 anni, il più lungo in epoca moderna. È finita la guerra ma ti senti subito dire che non è ancora pace. Sui muri dei palazzi ancora segni della guerra, come le “rose” sulle strade, piccoli avvallamenti segnati in rosso dove una bomba ha portato morte e sofferenza. Anche davanti la cattedrale, dove c’è la statua di Giovanni Paolo II, ricordo della visita compiuta il 12 e 13 aprile 1997.

Se per Giovanni Paolo II Sarajevo era dramma, problema e sfida per l’Europa delle tante guerre, per di più una città e una nazione al centro di tutti i conflitti dal 1914 ad oggi – è a Sarajevo che scoppia la scintilla del primo conflitto mondiale, l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando del nazionalista serbo Gavrilo Princip – per Papa Francesco la città rappresenta il messaggio da offrire all’Europa di oggi, e al mondo: partire dalle periferie, dai luoghi segnati dalla sofferenza, per costruire un futuro di vera pace, aperto al dialogo tra culture, popoli e fedi diverse. Così non è un caso che Francesco incontrando i giovani – un Papa “scatenato” gli dirà in aereo davanti ai giornalisti padre Federico Lombardi – parli di loro come “fiori di primavera del dopoguerra”, invitandoli a fare la pace a lavorare per la pace. Il mondo non ha bisogno di “predicatori” ma di costruttori di pace, aveva detto all’omelia pronunciata nello stadio Kosevo. “Tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera”, ma fare la pace è opera della giustizia, “è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia”.

All’aeroporto il Papa è accolto dal membro croato della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina – la presidenza della repubblica, con gli accordi di Dayton, è retta da tre persone in rappresentanza delle tre etnie, musulmana, serba e croata, che governano a rotazione per otto mesi – e dal cardinale Vinko Puljic; al palazzo presidenziale è il rappresentante serbo Mladan Ivanic a salutare Francesco, dicendo: “siamo il punto di unione e di divisione dell’Europa e dell’Asia, dell’Oriente e dell’Occidente; il luogo di incontro delle correnti spirituali che hanno avuto un forte influsso sullo spirito dell’Europa, il luogo delle diversità delle civiltà, degli influssi culturali e politici, dei grandi sconvolgimenti storici”.

Dopo Tirana, un’altra periferia europea, e il Parlamento europeo di Strasburgo, la visita di Francesco a Sarajevo, il terzo viaggio in Europa, è occasione per inserirsi in questo crocevia di tensioni, culture, religioni e popoli diversi – la Gerusalemme europea, l’aveva chiamata Giovanni Paolo II – per guardare alle ferite ancora sanguinanti del conflitto, con una popolazione cattolica dimezzata in un quarto di secolo; per parlare di una pace che produce, nella comunità croata, sentimenti di ingiustizia; di una situazione economica difficilissima, con un alto tasso di disoccupazione soprattutto giovanile.

Nei suoi discorsi, nella sua omelia, il Papa chiede di “costruire sempre nuovi ponti”, di scoprire “le ricchezze di ognuno” e di “guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti”. È parte integrante dell’Europa la Bosnia Erzegovina, dice ancora Francesco. Così come a Tirana, il Papa ricorda al vecchio continente che le nazioni che bussano alle porte dell’Unione devono essere accolte. Perché i successi e i drammi di queste nazioni “si inseriscono a pieno titolo nella storia dei successi e dei drammi europei” e sono un serio monito “a compiere ogni sforzo perché i processi di pace avviati diventino sempre più solidi e irreversibili”.

È dunque necessario un percorso che “purifichi la memoria e dia speranza per l’avvenire”, per questo chiede Francesco di opporsi “alla barbarie di chi vorrebbe fare di ogni differenza l’occasione e il pretesto di violenze sempre più efferate”. No alle “urla fanatiche di odio” afferma ancora, mentre parla di effettiva uguaglianza di tutti i cittadini” e dice: il popolo che dimentica la memoria non ha futuro. No ancora a questa sorta di terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Per Francesco si percepisce “un clima di guerra”, e c’è chi questo clima “vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi”. La guerra, ricorda, “significa bambini, donne e anziani nei campi profughi; significa dislocamenti forzati; significa case, strade, fabbriche distrutte; significa soprattutto tante vite spezzate”. In realtà il cosiddetto nemico “ha il mio stesso volto, il mio stesso cuore, la mia stessa anima”. Tutto questo Sarajevo e la Bosnia lo sanno bene. Per questo ripete il grido: “mai più la guerra”.

Ma è con i giovani che Francesco spinge di più sull’acceleratore, se così possiamo dire. La sua preoccupazione è che la generazione, la prima del dopoguerra – “fiori di primavera del dopoguerra” li chiama – non sia capace di voltare pagina e di costruire, nella pace, una convivenza tra realtà diverse. Così, lasciando da parte il testo scritto e rispondendo a braccio, come si dice, alle domande che gli sono rivolte, parla di valori veri, che preparano alla vita; di “fantasia che uccide l’anima” pensando ad alcuni programmi delle televisioni dove il messaggio è tutt’altro che positivo. Parla ancora di pace, da costruire assieme; di ideali. Giovani nei quali coglie gioia, amore; giovani che “vogliono andare avanti e non tornare alla distruzione, alle cose che ci fanno nemici gli uni gli altri”. In loro c’è questa voglia e questo entusiasmo, afferma ancora Francesco: “voi non volete distruzione: voi non volete essere nemici l’uno dell’altro. Volete camminare insieme”.

Darko Majstorovic, 24 anni, cattolico, è un professore di educazione fisica. La guerra per lui è soprattutto ricordo di pensieri imposti da una società che trasmetteva pregiudizi, con l’obiettivo di dividere, portare odio. Al Papa nella sua testimonianza dice: non bisogna avere paura delle sfide, delle diversità. “Usiamo parole diverse per dire la stessa cosa”, e “non ho mai capito perché venivano usate parole come nostro o loro”.

Francesco lo guarda; i suoi occhi poi si rivolgono ai tanti ragazzi che affollano il centro giovanile intitolato a Giovanni Paolo II. Dice: “vedo che avete la stessa esperienza di Darko. Non siamo ‘loro ed io’, siamo ‘noi’. Vogliamo essere ‘noi’, per non distruggere la patria, per non distruggere il Paese. Tu sei musulmano, tu sei ebreo, tu sei ortodosso, tu sei cattolico, ma siamo ‘noi’. Questo è fare la pace”. I giovani, dice ancora, hanno una vocazione grande: “mai costruire muri, soltanto ponti. E questa è la gioia che trovo in voi”.

Poi, quasi per nulla preoccupato del ritardo accumulato, rispetto al programma, si ferma ancora, aggiunge parole: “tutti parlano della pace: alcuni potenti della terra parlano e dicono belle cose sulla pace, ma sotto vendono le armi. Da voi io aspetto onestà, onestà fra quello che pensate, quello che sentite e quello che fate: le tre cose insieme. Il contrario si chiama ipocrisia”. Ricorda infine un film “Die Brücke” (“Il ponte”); forse nella memoria c’è anche l’immagine della distruzione del simbolo di Monstar, il suo antico ponte ricostruito dopo la guerra: il ponte “unisce sempre”, dice. “Quando il ponte non si usa per andare uno verso l’altro, ma è un ponte vietato, diventa la rovina di una città, la rovina di una esistenza” All’esterno del centro vengono liberate delle colombe, segno di pace. E questa, afferma ancora improvvisando Papa Francesco, “ci porterà gioia. E la pace si fa tra tutti, tra tutti: musulmani, ebrei, ortodossi, cattolici ed altre religioni. Tutti siamo fratelli. Tutti adoriamo un Unico Dio”.

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